Debutta all’Arcobaleno “Il Vantone”, trasposizione romanesca del Miles Gloriosus
di Plauto firmata dal regista bolognese.
Ce ne parla Domenico Pantano, attore e produttore dell’opera teatrale.
La stampa che ha seguito il debutto estivo de “Il Vantone” parla di un pubblico divertito e complice dei doppi sensi: ma siamo sicuri che stiate davvero portando in scena un testo di Pasolini?
“In effetti suona un po’ strano perché generalmente Pasolini non è uno che fa ridere ma che fa riflettere. Affabulazione, Orgia, Pilade sono opere partorite dalla sua mente e lontanissime da qualsiasi linea comica. Non è però questo il caso de ‘Il Vantone’ che Pasolini ha tratto pari pari dal repertorio di Plauto, autore esilarante, trasferendolo e ambientandolo nella periferia di Roma anni 60 in dialetto romanesco. Ma proprio grazie a questo trasferimento della vicenda in una Roma che ben conosceva, come anche l’ambientazione nella sua periferia e l’uso del dialetto romanesco ci hanno consentito di creare un’opera favorevole alla risata. A questo si aggiunge l’abilità di chi ha messo assieme lo spettacolo, assemblando una compagnia con figure anche esagerate rispetto ai personaggi, arricchendo con musiche dei testi nati all’origine apposta per esser cantati. Tutto insomma contribuisce al risultato di uno spettacolo assolutamente divertente”.
Hai accennato alla compagnia: non spiccano nomi da copertina ma state ugualmente sbancando al botteghino. Qual è il segreto?
“Nicasio Anzelmo, nostro regista, ha messo su una compagnia di attori tutti davvero bravi, non di nome ma ciascuno di grande esperienza. Ha voluto per ogni ruolo chi era certo che ne fosse il miglior interprete secondo il progetto che aveva in mente”.
E le canzoni? Una vostra trovata?
“No, no. Giovanni Zappalorto, il compositore che vi ha lavorato sopra ha composto la partitura musicale su testi già scritti da Pasolini; sono tutte musiche originali costruite apposta per il nostro Vantone e non sono solo canzoni ma anche duetti, terzetti; c’è molta musica nel nostro spettacolo, moltissima musica e anche tante coreografie e movimenti scenici che accompagnano la musica facendone quasi dei piccoli balletti”.
Molto ritmo quindi.
“Sì c’è un’azione continua, battute a raffica, mai nessuno che stia fermo; se qualcuno declama gli altri attorno fanno qualcosa, un ritmo motorio molto alto che contribuisce alla riuscita. D’altronde quello che volevamo ottenere era proprio uno spettacolo che durasse nel tempo, che potesse andare in scena per svariate stagioni, rispettando anche l’accordo di titolarità concordato con gli eredi di Pasolini, titolarità che ha necessitato un enorme impegno produttivo”.
Specialmente in un momento così articolato per i teatri…
“Esatto, un momento storico e sociale che non favorisce grossi investimenti teatrali. Ciò nonostante il Centro Teatrale Meridionale di Reggio Calabria che rappresento e che ha prodotto in toto lo spettacolo, ha creduto fortemente nell’allestimento di un’opera che fosse all’altezza del nome che portava e non ha lesinato, per esempio, nella scenografia ideata da Angela Gallaro Coracci e costruita pezzo per pezzo nel laboratorio scenotecnico di Mario Amodio, che ha gran tradizione nel settore. Noi non ci presentiamo con un tavolino e uno sgabello, abbiamo una scenografia molto raffinata, molto pensata. Lo stesso vale per i costumi che riproducono il periodo storico contemplato, gli anni ’60, e sono molto ricercati sia che richiamino lo ‘sperluccichio’ esagerato del varietà sia che alludano ai figli dei fiori. Tutto è frutto di accurata ricerca e da produttore mi sento molto orgoglioso di aver realizzato un’opera di notevole qualità centrando appieno nel risultato l’obiettivo di partenza ovvero l’idea di realizzare un prodotto di alto livello per portarlo avanti nelle stagioni”.
Questo da produttore. Invece come attore?
“Come attore devo ammettere che è stata una bella prova; interpreto un personaggio romanesco e proprio la lingua è stata il primissimo scoglio da superare perché non essendo di nascita romano mi son dovuto calare in un linguaggio che non mi appartiene. A questo aggiungi l’entrare in un personaggio che rappresenta la borgata; Vantone nel nostro spettacolo non ha nulla di militare è uno spaccone di periferia, uno che vanta azioni mai compiute, è un’apparenza continua di cose che non è e da questo punto vista credo di averlo costruito bene nonostante sia la prima volta che mi capita un personaggio così, una figura totalmente nuova almeno per me che ne ho interpretati diverse decine”.
Nuovo sotto quale profilo?
“Sotto ogni profilo, per il linguaggio, nella gestualità, nello stesso modo di parlare”.
Ti sei fatto sfuggire che Vantone non ha nulla di militare: dov’è finito allora il Miles di Plauto?
“Pasolini lo ha portato in periferia lasciandogli tuttavia impugnare uno spadone, il che non combina con l’epoca degli anni in cui ha calato l’ambientazione. Nella nostra trasposizione lo spadone è diventato il “fero” che nel linguaggio malavitoso chiama così la pistola il che, se vogliamo è una delle piccole innovazioni che abbiamo apportato per renderlo più fluido e scorrevole ovviamente sempre con l’approvazione degli eredi”.
Pare che “Il Vantone” non sia un testo molto rappresentato.
“Vero, lo hanno portato in scena in pochi ma quei pochi si chiamano Arnaldo Foà, Paolo Ferrari… grandi attori che comunque lo hanno interpretato per lo più vestiti da antichi romani e impugnando lo spadone. Il nostro è un ‘Vantone’ assolutamente unico e c’è un solo modo per dimostrarvelo: invitarvi a vederlo al Teatro Arcobaleno a partire dal 13 gennaio. Vi aspettiamo!”.
© Servizio fotografico di Pino Le Pera