“Testimoni di coraggio” di Daniela Valente: 18 uomini e donne che hanno fatto la storia

Condividi su:

di Ilaria Solazzo –

“Testimoni di coraggio” – scritto da Daniela Valente (ed. Coccole books) – è un libro molto interessante. Nelle 121 pagine – illustrate da Marco Paci – vengono presentate diciotto brevi biografie di persone che hanno fatto la storia; donne e uomini che grazie alla loro tenacia, forza, determinazione, coraggio e testardaggine, hanno lottato per il cambiamento, in particolare combattendo contro la mafia.

I nomi sono quelli degli eroi del nostro tempo: Carlo Alberto Dalla Chiesa, Rosario Livatino, Giovanni Falcone tra gli altri. Servirebbero mesi per parlare di ognuno di loro in modo adeguato: grazie a questo libro, potete avere un assaggio della vita e delle esperienze di ciascuno.

Attraverso le note stilate da Daniela Valente, conosceremo giornalisti, sacerdoti, politici, magistrati, donne e uomini che con coraggio, si sono opposti con fermezza, a chi li voleva tenere ai margini della società. Tra spunti riflessivi, drammi attuali e seconde possibilità, i giovani lettori potranno scoprire storie emozionanti e ricche di insegnamenti veri di vita. Marco Paci con le sue splendide illustrazioni, molto coinvolgenti e d’impatto, li accompagna per mano all’interno di ogni storia. Nella sua narrazione, Daniela Valente racconta, con un senso quasi di ammirazione, storie di figure che purtroppo spesso, abbiamo appena sentito nominare. Ma, attraverso le loro vicende, si impara che a volte, basta credere nei propri ideali per poter migliorare un poco questo mondo.

Nelle note che accompagnano il volume si legge: “Si può morire di mafia per tante ragioni: perché sei parente di un uomo d’onore, sei un giornalista, un sacerdote, un politico o un magistrato che fa fino in fondo il proprio mestiere, perché sei un uomo o una donna leale verso la comunità o lo Stato. Si può morire perché sei un imprenditore che decide di non cedere a una spirale economica irreversibile, oppure perché sei un pentito o un testimone di giustizia, che sceglie di raccontare i reati che ha commesso o quelli a cui ha assistito. Si può essere anche una vittima innocente, caduta sotto i colpi di guerre altrui, che si trova al momento sbagliato nel posto sbagliato. Il tentativo è quello di – attraverso 18 biografie – raccontare il fenomeno mafioso e la sua lenta trasformazione a partire dalla prima strage dopo l’Unità d’Italia. L’autrice racconta le storie di uomini semplici ma coraggiosi. e ne ricorda i volti (nel giorno del sacrificio), perché le loro testimonianze possano essere di esempio e di aiuto. Vicende drammatiche non esenti, però, da una profonda dose di speranza. Più ci si addentra nella lettura, più si ha la sensazione di precipitare in un abisso, schiacciati, assieme ai vari protagonisti sotto il peso di una realtà ostile e minacciosa, alienante, che sfugge ai nostri criteri di interpretazione e valutazione. Il racconto della vita e delle “parole” di testimoni che hanno sacrificato la vita per stare dalla parte di giustizia, legalità e affermazione dei principi democratici dello Stato di diritto aiutano ad avvicinarsi alla cultura della legalità che è fatta di scelte quotidiane, di gesti responsabili e consapevoli. La lotta alla criminalità organizzata non può essere affare per pochi, ma deve diventare impegno quotidiano di tutti per rendere effettive le condizioni di libertà e di democrazia nella nostra società. Non lasciamoli soli e facciamo tesoro di quanto ci hanno trasmesso, superiamo l’indifferenza, l’individualismo che mette in crisi la società e incamminiamoci sul sentiero della legalità, seguendo l’esempio di coloro che l’hanno già intrapreso.

La storia che ho scelto di mettere in risalto è quella di Don Puglisi: una persona speciale e unica, sacerdote esemplare, dedito specialmente alla pastorale giovanile. Educando i ragazzi secondo il Vangelo vissuto li sottraeva alla malavita e così questa ha pensato di sconfiggerlo uccidendolo. Padre Pino Puglisi è il primo martire della Chiesa Cattolica ad essere stato ucciso dalla mafia.Lo chiamavano “U parrinu chi causi” – il prete con i pantaloni, per la sua abitudine di non indossare l’abito talare lungo le strade di Brancaccio, quartiere di Palermo in mano alla mafia dove “si fa prima a dire quello che c’è, tutto il resto manca”. Questa periferia del mondo diventa il fulcro dell’impegno di don Puglisi che si articola su più fronti, a partire dall’educazione dei bambini del quartiere: bisogna promuovere l’alfabetizzazione e creare campi scuola, in un territorio dove, all’indomani della strage di Capaci, i ragazzini gridavano per le strade “Abbiamo vinto! Viva la mafia!”. Nasce così il Centro Padre Nostro, un luogo dove accogliere i giovani per toglierli dalla strada e strapparli alla criminalità. Il sacerdote, poi, si impegna come cittadino, per la riqualificazione del Brancaccio, promuovendo la creazione di un centro sanitario, la sistemazione delle fogne, la costruzione di una scuola media. Ma la sua lotta non si esaurisce in questo. Don Pino è stato un profondo innovatore della sua chiesa, in un percorso mirato all’apertura e non alla chiusura, alla libertà e non alla paura. Durante le sue omelie non rinunciava mai a denunciare la mafia, senza tuttavia dimenticare il perdono: se infatti la mafia, peri cattolici, come struttura è peccato ed è da condannare, il mafioso come singolo è un peccatore, e per lui è necessario il perdono amava precisare. Tutto questo non passò inosservato. Il 15 settembre 1993, giorno del suo compleanno, un uomo lo attese davanti al portone di casa. Al suo assassino, prima di morire, don Pino rivolse tre semplici parole: “Me lo aspettavo”.

I discorsi e i gesti di Don Pino furono giudicati pericolosi dalla mafia, che si vedeva sottrarre bambini e ragazzi sotto gli occhi. Le intimidazioni non lo fermarono: volle morire sapendo di aver fatto nel suo piccolo tutto ciò che era nella sua facoltà di uomo di fede.

Condividi su:

Valuta questo articolo:
5/5

i più recenti

Articoli correlati